PIETRO QUERINI E L’INCREDIBILE AVVENTURA DELLO STOCCAFISSO

La nave, o almeno ciò che ne rimaneva, andava alla deriva ormai da sei settimane, in quel grigio autunno, spinta sempre più a nord dai venti, dalle tempeste e dalla corrente del Golfo. Ormai aveva superato da giorni il Circolo polare artico quando l’ennesima bufera, carica della prima neve, diede il colpo di grazia alla “cocca” da trasporto veneziana, che iniziò ad imbarcare acqua.

Tra grida, imprecazioni, preghiere, i superstiti dell’equipaggio si accalcarono sulle due uniche scialuppe risparmiate dai marosi: 47 marinai sulla prima; diciotto, il comandante, i suoi due aiutanti, sulla seconda, più grande.

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[two_third_last]Poi, a forza di remi si allontanarono velocemente per non farsi inghiottire dalla nave che sprofondava negli abissi. Era la fine della Querina che era partita sul finire dell’estate 1431 da Candia, l’attuale Creta, con destinazione le Fiandre. La comandava Pietro Querini, patrizio veneziano, mercante, armatore, navigatore spericolato, aveva un equipaggio di 68 uomini ed un carico di 500 tonnellate, tra cui 800 barili del vino Malvasia prodotto dalla famiglia Querini nelle sue tenute a Candia, spezie, cotone, cera, allume di rocca.[/two_third_last]

Il 14 settembre, dopo aver superato lo Stretto di Gibilterra e aver fatto scalo a Cadice, la Querina fu investita da una violenta tempesta all’altezza di Capo Finisterre, che strappò le vele, divelse gli alberi e spezzò il timone. Priva di ogni possibilità di manovra, la nave divenne balia degli elementi che la trascinarono per diverse settimane sempre più a nord, ben oltre l’Irlanda.

[two_third]Fino al giorno della bufera fatale – era il 17 dicembre – e al suo abbandono da parte dell’equipaggio che si ritrovò in mezzo ad un mare sconosciuto, stremato dal freddo e dalla fame, senza traccia di terra all’orizzonte. Dopo una breve preghiera, le due lance si separarono, ognuna alla ricerca della salvezza. Di quella con 47 uomini non si ebbero più notizie.

La scialuppa con Pietro Querini ed i suoi due aiutanti, Nicolò de Michele e Cristofalo Fioravante, andò a lungo alla deriva, tra privazioni e morti, fino ad avvistare lo scoglio di Sandøi, nell’arcipelago delle Lofoten, quasi all’estremo nord dell’attuale Norvegia. Un posto «in culo mundi» come ebbe a scrivere Pietro Querini nel suo diario.[/two_third]
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Per undici giorni il mercante e quanto rimaneva dello stremato equipaggio (i due aiutanti e sedici marinai) vissero abbarbicati sullo scoglio cibandosi di patelle e accendendo fuochi per riscaldarsi.

I fuochi furono la loro salvezza: vennero avvistati da alcuni pescatori della vicina isola di Røst che li soccorsero, li trasportarono al loro villaggio, li curarono finché ripresero completamente le forze.

«Gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrarono molto benevoli – scrisse il mercante nella sua relazione per il Senato della Serenissima – et serviziosi, desiderosi di compiacere più per amore che per sperare alcun servitio o dono … vivono in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono di pesce …». Il pesce in questione era il merluzzo, che veniva fatto essiccare sui tetti delle capanne, all’aria aperta.

Oltre a questo originale sistema di conservazione, che rendeva i merluzzi duri come il legno, ciò che colpì Querini fu come venissero trattati per renderli commestibili: «Quando si vogliono mangiare li battono con il rovescio della mannara (la scure, ndr) che li fa diventare sfilati come nervi, poi ricompongono butirro e specie per dargli sapore». Era il primo incontro di un uomo dell’Europa del Sud, in quel periodo centro del mondo civile, con lo stoccafisso.

I veneziani furono ospiti dei pescatori di Røst per quattro mesi, poi il 15 maggio 1432 iniziarono il lento rientro a Venezia che raggiunsero il 12 ottobre. In tutto questo tempo il nostro Querini non aveva dimenticato di essere un commerciante e così portò dai lontani mari del Nord alcuni esemplari di stoccafisso che propose, con scarso successo per la verità, al Senato come provvista da imbarcare sulle navi della Serenissima Repubblica per le sue caratteristiche di conservazione nel tempo.

L’anno seguente, convinto che prima o poi lo stoccafisso avrebbe sfondato anche sulle terre controllate da Venezia, Querini tornò dai suoi amici di Røst per scambiare vino e spezie con stoccafisso. A questo punto, la storia diventa leggenda. Giunto alle Lofoten, il suo spirito avventuroso lo spinse ancora più a settentrione, per conoscere quel mare sconosciuto. Sparì tra i ghiacci eterni, come un eroe delle saghe nordiche.

Il ricordo di questo capitano da mar è ancora vivissimo tra le popolazioni delle Lofoten, che nel cinquecentesimo del naufragio hanno eretto un cippo a suo ricordo sull’isola di Røste e più recntemente hanno ribattezzato un’isola del loro arcipelago Sandrigøya, ossia isola di Sandrigo, in onore della cittadina vicentina di Sandrigo che organizzata ogni anno la sagra del baccalà, piatto forte della cucina locale a base di stoccafisso e le giornate dell’amicizia italo-norvegese.

La storia avventurosa dello stoccafisso, chiamato in Veneto bacalà (da non confondersi con il baccalà noto nelle altri parti d’Italia che è merluzzo conservato sotto sale) non finisce con la misteriosa scomparsa di Querini.

Infatti, ci volle un secolo perché ottenesse la meritata rivincita. Fu per merito delle direttive del Concilio di Trento (1545-1563) che sancirono l’obbligo dell’astinenza della carne per quasi 200 giorni e raccomandarono proprio lo stoccafisso come piatto magro tutti i mercoledì ed i venerdì. Inoltre, era insostituibile nei quaranta giorni della Quaresima.

Divenne poi un mito a Venezia nel 1848 quando, grazie alla sua lunga conservazione naturale che consentiva di riempire i magazzini senza pericolo di perdite, sfamò per quasi un anno i cittadini nell’insurrezione, poi soffocata, contro gli Austriaci.

 

Fonte: www.gustosamente.com
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